Ott 2020

Il cammino dell’uomo oltre l’autoreferenzialità: “Dove sei?” come coppia e come genitore?
Narcisismo e autoreferenzialità -Secondo il mito classico, Narciso, era meravigliosamente bello ma senza saperlo. Appassionato di caccia, Narciso percorreva, instancabile, boschi e monti; e, in una di queste uscite, si incontrò con la ninfa Eco che s’innamorò perdutamente di lui; ma Narciso non volle corrispondere al suo amore, ritenendo di non potersi accompagnare con una semplice ninfa. Eco soffrì terribilmente per questo amore non corrisposto, perse la sua forza invocando Narciso: di lei non restò che la voce implorante e ripetitiva, un’eco che, limitandosi a ripetere l’ultima parola, si spense pian piano nella caverna. Fu allora che Nèmesi, la dea della vendetta, mossa a pietà dell’infelicissima ninfa, decise di vendicarla. Condusse Narciso sulla sponda d’una fonte le cui acque limpide e terse gli rimandarono, come in uno specchio, l’immagine della sua bellezza: e Narciso, che non si era mai visto, vinto dall’ammirazione per l’immagine riflessa, non trovò più la forza di staccarsene. Narciso morì consunto da un amore folle per l’immagine di sé; al suo posto, mutato dalla dea vendicatrice, nasce un fiore giallo, che ancora oggi si chiama Narciso. Non è dunque il suo vero sé, il suo ‘io’ forse inesistente, che egli ama o desidera, che Narciso disconosce, innamorato solo della sua immagine. Per quanto radicale, dunque, l’isolamento di Narciso non esclude affatto che anche lui ami, desideri, sia attratto dall’ “alterità”, dall’altro: sennonché, non avendo mai fatto l’esperienza dell’amore vero, non sa percepire altro che il riflesso di se stesso. È talmente isolato, che l’unica voce che lo raggiunge e riesce ad ascoltare è solo l’eco, la “voce senza corpo” della ninfa che lo ama senza essere vista e considerata, condannata a ripetere per sempre l’ultima parola, senza risposta. Quante “storie” simili anche oggi, nella cultura dell’immagine, del narcisismo dilagante dell’autoreferenzialità. L’esito tragico in cui culmina la vicenda di Narciso deriva da questa sua autoreferenzialità, da questa incapacità di andare oltre se stesso, da questa radicale assenza di relazioni con l’altro da sé. Il narcisista comporta la riduzione dell’altro a riflesso di sé. Proprio perché senza rapporto all’alterità dell’altro, Narciso risulta incapace di riconoscere veramente se stesso, vede solo la propria immagine riflessa nell’altro. Anche lui ha desiderio e nostalgia dell’altro, ma non lo vede realmente e finisce ‘annegato’ nella prigione dell’isolamento e della solitudine. Il mito c’insegna che la chiusura in se stessi, l’autoreferenzialità, è la premessa di una conclusione mortifera. Solo un rapporto vero con la vita e l’esperienza dell’altro possono alimentare il desiderio che, se ripiegato su se stesso, muore e finisce con lasciar morire anche l’amore dell’altro. L’altro non è un oggetto da possedere o consumare in vista del proprio soddisfacimento. Nell’autoreferenzialità narcisistica ciò che viene del tutto a mancare è esattamente questo tipo di relazione e di esperienza dell’altro, tanto che Narciso, proprio per questa carenza, ama esclusivamente la propria immagine, che diventa per lui l’unica figura dell’alterità e orienta così in maniera autodistruttiva il proprio desiderio, finendo però con ciò stesso per annientarlo. Il narcisismo autoreferenziale è caratteristica centrale della fase originaria della vita psichica, è struttura fondamentale della prima infanzia, ma rischia di essere anche la struttura portante dei modelli comportamentali dominanti nella società del benessere e del consumo.
Il cammino dell’uomo deve portarci “oltre” l’autoreferenzialità: non si cresce se non nell’incontro con l’altro; ciò comporta anche accettare il senso del ‘limite’ all’individualismo imperante. Riusciamo a capire come esista oggi una sorta di generalizzata ribellione mentale nei confronti delle esperienze del “limite” che mette in discussione la pretesa dell’autosufficienza. Insomma, il desiderio narcisista vorrebbe essere illimitato e onnipotente, pienamente realizzato/soddisfatto e, perciò, liberato da ogni recinto, da ogni regola. Questa pretesa irrealizzabile, autodistruttiva, viene ogni volta smentita e contrastata dall’esperienza concreta, in cui “il desiderio” resta inappagato e sofferente. Da qui la ribellione impotente al dolore per la perdita della propria immaginaria onnipotenza: il ‘lutto’. Il distacco da qualcosa o qualcuno che abbiamo amato e ammirato nei nostri sogni o attese, è sempre un processo doloroso e paralizzante, anche se il “lutto”, il dolore della perdita delle relazioni d’amore, per quanto acuto e devastante, in genere “si estingue spontaneamente” con il passare del tempo, consentendo alla persona di non cadere in disperazione e di investire altrove i propri affetti al posto di quelli perduti. C’è uno stretto rapporto tra il lutto e la parabola del narcisismo. Entrambi presuppongono un’esperienza di pienezza e di stabilità, in cui ci si sente pienamente a casa. Pensiamo alla delusione di ciascuno di noi, smarriti in un mondo che ci è divenuto straniero a causa del Covid 19. Questa delusione, se ben analizzata, “si riduce al crollo di un’illusione”, cioè della pretesa del dominio totale sul mondo esterno. E che cos’altro è in gioco nell’autoreferenzialità del narcisista? In fin dei conti, si tratta di una perdita che non può più essere disconosciuta e negata in nome dell’onnipotenza del desiderio. Ne consegue che l’essere liberi dai ‘limiti’ che ogni relazione d’amore comporta, può essere solo vagheggiato o sognato, ma non può esser mai realmente vissuto, se non attraverso la chiusura di ogni relazione.
“Adamo, dove sei?”. Sedotto dalla prospettiva della sua illimitatezza e della sua (presunta) onnipotenza, il desiderio dell’uomo soggiace alla tentazione che rende impraticabile il “legame d’amore”. Chiudendosi esclusivamente in un mondo di cose, la persona resta imprigionata nella propria illusoria autoreferenzialità, col rischio di autodistruggersi. È quindi solo il desiderio dell’incontro con l’altro, ‘personale’ e ‘sociale’, è l’unica via che spinge l’uomo a trascendersi, consentendogli di espandersi e crescere come persona.
Il racconto della creazione ci illumina (Gn.1,8ss) – “8Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male …15Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.
16Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, 17ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire». Ma il serpente (Gn. 3,1ss) disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”? 2Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». 4Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito …”
“Diventare come Dio” – Ecco la sorprendente proposta di satana! Eva, nella sua solitudine, perché Adamo, “l’altro” non è presente, è distante o addormentato, decide da sola, rompe la ‘relazione’: quando si è soli nel decidere, non bisognerebbe mai perdere di vista la trama dei legami che ci costituisce, rendendoci capaci di decidere ‘insieme’. Il ‘serpente’… è un separatore: infatti non solo separa l’Albero della conoscenza da quello della Vita, ma separa anche (per opporli) Eva da Dio e Eva da Adamo. Non bisogna stancarsi di ripeterlo: la donna è sola di fronte al serpente e alla sua esorbitante proposta. La scena non potrebbe essere più drammatica. Chiamati a “coltivare e custodire” il giardino ci ricorda che non siamo Dio e che ciò che si può e si deve custodire è sempre e solo “l’altro”, precisamente il fatto che tu non sei ‘tutto’. Infatti non c’è umano senza limite: dobbiamo riconoscerci creature, fuori di questa differenza radicale non c’è che la morte dell’umano e di ogni relazione vera. L’uomo e la donna si lasciano sedurre dal ‘serpente’ (satana) e perdono il “contatto” con Dio, perdono l’intesa tra di loro come coppia, perdono la relazione armoniosa con gli animali e con la terra. L’itinerario è dunque: 1. Non tutto = tutti gli alberi eccetto uno; 2. Non senza un altro = non è bene essere solo; 3. Non con il medesimo = non con padre e madre (bisogna ‘lasciare padre e madre’) per diventare adulti e maturi, capaci di relazioni e legami generativi. Allora non si scarica l’altro (la colpa sembra sempre dell’altro): Adamo crede di giustificarsi incolpando Eva; Eva crede di giustificarsi incolpando il serpente. Succede nella coppia, succede come genitori, scaricando l’uno la responsabilità sull’altro: e questo è il “peccato”: uno dei due resta al ‘palo’, mentre l’altro fa la strada da solo. C’è “l’io” e il “tu” ma non c’è il “noi”; un “noi” non confusivo, ma di alleanza, fatta di complicità e di intesa, nel rispetto delle differenze! Quante volte come coppia e come genitori si cammina in solitudine, da “single” di ferro, da solitari viaggiatori incapaci di stare sul “tandem”, incapaci di avere uno sguardo condiviso e mete di comunione. Il cammino non è più della coppia ma diventa autoreferenziale: manca l’accordo, c’è rottura, divisione e anche i figli vivono un clima familiare asettico, freddo o, addirittura, contraddittorio. Si vive allora in un ambiente “tossico”. Come coppia e come genitori dovremmo evitare il più possibile di restare soli, isolati: mai restare senza il sostegno e il confronto dell’altro. Il cammino della coppia ci impegna a superare l’autoreferenzialità! Questa è la vocazione e la “grazia” propria del matrimonio e della famiglia. È l’armonia sognata anche da Dio prima del peccato, è l’unica vera eredità da lasciare ai figli. Siamo responsabili dei nostri legami e dobbiamo riconoscere i limiti: non siamo onnipotenti! È nei ‘legami’ che raggiungiamo la nostra vera identità: avremo più fiducia in noi stessi e nei legami d’amore. Il rispetto dell’alterità ci farà uscire dalla con-fusione in cui uno si appiattisce sull’altro: se si negano le differenze, non resta altro destino che annullarsi nell’altro.
Dio cerca l’uomo, ci cerca sempre: “Dove sei?”. Adamo sei tu. È a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei? Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto”, riconosce la sua fragilità.
Qui inizia il cammino dell’uomo – Solo quando l’uomo esce dall’onnipotenza, si ravvede e rinuncia all’autoreferenzialità, inizia il vero cammino di umanizzazione: “Sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto”. Bisogna cominciare da se stessi: ogni uomo deve abbracciare il suo cammino particolare, deve trovare se stesso, non l’io illusorio dell’egocentrico. Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare, compiendo quel compito particolare al quale Dio ti ha destinato, senza lasciarsi dominare da sensi di colpa: “Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? … Perciò sta scritto: Allontanati dal male e fa il bene…” (M. Buber, Il cammino dell’uomo, ed. Qiqajon pag. 52). Bisogna dimenticare se stessi, concentrarsi meno sulla salvezza della propria anima, e pensare al mondo.
C’è un grande tesoro: si chiama compimento dell’esistenza. Il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova: Dio abita dove lo si lascia entrare! Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio nella vita! Abitare il legame con l’Altro/altro, con Dio e con il prossimo ci renderà uomini e donne di comunione.
Domande
- A che punto siete del cammino? Il coniuge e i figli cosa potrebbero dire?
- C’è stato cammino di crescita in questi anni? Chi vi ha aiutato di più a crescere in umanità?
Giuseppe Belotti, Psicologo e Psicoterapeuta, Direttore Associazione Psicologia Psicoterapia Il Conventino