Mar 2020

Gioco e narrazione ai tempi del coronavirus
Quando ho iniziato a lavorare come psicologa dell’infanzia, ricordo una domanda, di quelle che ti lasciano spiazzata ed in imbarazzo, da parte di un bambino che voleva sapere “ma cosa fa la psicologa?”
Alla mia risposta “ascolta le persone e parla con loro” aveva ribattuto incredulo: “e per fare questo la pagano?”
Passano gli anni, ti specializzi, ti tieni aggiornata, frequtni corsi, convegni… Vai tu per anni a parlare e a farti ascoltare da colleghi più esperti di te, e ti convinci che davvero parlare ed ascoltare possa essere un mestiere.
Finché un brutto giorno, ai telegiornali iniziano a dire che in Cina le persone muoiono per un virus che ha il nome dell’astronave di un film di fantascienza. Pensi “beh, Wuhan è lontano” poi Wuhan diventa Codogno e Codogno diventa Alzano. E non puoi più dire che è abbastanza lontano da non essere un tuo problema.
L’emergenza
Rimbalza la notizia che non si può andare a scuola, poi al supermercato, poi al lavoro. Zona rossa, zona arancione e ti ritrovi chiuso in casa come non ti capitava da quella volta che hai avuto il morbillo in terza elementare.
Ti accorgi che quello che hai sempre agognato, girare per casa in pigiama tutto il giorno senza aver nulla da fare, non è esattamente il villaggio vacanze, soprattutto se ti trovi a dover gestire casa, famiglia e un lavoro che è ‘smart’ solo finchè non lo fai.
Ma questo non sarebbe ancora nulla, se intorno a te non cominciassero ad ammalarsi e morire persone che conosci. Le avevi incontrate magari pochi giorni prima al supermercato, dove ormai tra l’altro non puoi più mettere piede se non bardata di guanti mascherina e appena arrivi a casa mi raccomando decontamina tutto.
E poi non sono più solo conoscenti, ma anche persone vicine, non solo di 90, ma di 60, 40 o anche 30 anni. Muoiono, giorno dopo giorno, e male.
Il telegiornale, se hai ancora il coraggio di guardarlo, ti butta in faccia cifre da bollettino di guerra. E dietro alle cifre, che una volta tanto non sembrano asettiche nemmeno loro, ci sono visi, storie di persone e di famiglie, vite.
Poi ci sono le immagini dagli ospedali, medici e infermieri sfigurati dalla stanchezza e da mascherine che segnano nel viso e nell’anima, e che giorno dopo giorno sono lì. Ma a casa anche loro hanno figli, genitori, tanti di loro li conosci, sono amici, parenti, pazienti, persone delle quali hai in mente le storie, spesso già complicate anche senza Covid-19.
Forse vorrebbero essere al tuo posto, a casa ad impazzire tra figli, spesa online (che se sei fortunata ti verrà consegnata per Pasqua) o forse no, non vorrebbero, perché hanno fatto una scelta e il loro posto è lì e lì restano nonostante tutto.
Cosa dire ai bambini?
E allora, alla domanda di mia figlia di 2 anni “Mamma, c’è il sole! Perché non posso andare al parco? Perché i lombrichi si e io no?” mi trovo spiazzata e in imbarazzo come di fronte a quel bimbo di tanti anni fa.
Il senso di impotenza per non riuscire a trovare LA risposta giusta, lascia però presto spazio alla riflessione che
non sono risposte quelle che cercano i bambini, ma innanzitutto la possibilità di poter fare domande.
E se dietro ad ogni domanda c’è un pensiero, quello che ci chiedono è di aiutarli a dare voce a pensieri che non sempre, soprattutto nel caso dei più piccoli, hanno le parole per essere espressi.
Quindi quello che come adulti siamo chiamati a fare non è dare risposte, quanto piuttosto uno spazio insaturo, in cui fare sì che pensieri, fantasie, emozioni possano essere espressi per poter co-costruire significati.
La ‘verità narrabile’
Spesso ci si chiede, soprattutto in situazioni gravi come quella che stiamo vivendo, cosa si possa raccontare ai bambini, se non sia meglio omettere o edulcorare una realtà troppo cruda per non turbare i piccoli.
Questa posizione, prevalente fino a qualche decennio fa, ha per fortuna lasciato spazio ad un approccio completamente diverso, che lascia spazio a quella che viene chiamata ‘verità narrabile’. Il concetto mi è particolarmente caro, essendomi occupata a lungo di adozione.
Credo sia necessario poter parlare ai bambini con parole chiare, semplici, che li raggiungano non solo a livello cognitivo ma soprattutto affettivo. Ancor più importante è lasciar loro la possibilità di esprimere pensieri e parole, e aiutarli a tradurli in emozioni.
Il trauma
Si definisce trauma “un evento negativo, che incide sulla persona e la disorienta”. Oggi stiamo vivendo l’esperienza di traumi multipli: individuali, familiari, collettivi.
Per un bambino è traumatico perdere le proprie routine (scuola, sport), interrompere i rapporti con le persone significative (parenti, amici), vivere in uno stato di costante preoccupazione per sé e per i propri cari. Questo soprattutto laddove la preoccupazione è legata a dati di realtà concreta, quali genitori che devono comunque andare a lavorare, pensiamo agli operatori sanitari.
E il trauma diventa esperienza devastante quando la malattia e nei casi più estremi la morte entra nella propria casa portando via un nonno, un genitore, un insegnante. Anche laddove la malattia non bussa alla porta, è traumatico per grandi e piccoli vivere un senso di impotenza e di paralisi a cui non siamo preparati, cresciuti nell’illusione che non ci sia un limite alle nostre possibilità.
Se ad un’esperienza traumatica non viene data voce non può essere espressa e rielaborata, con il rischio che venga rivissuta attraverso il corpo. Pensiamo all’area dei disturbi psicosomatici, cosi frequenti in età infantile, o venga relegata in quell’area di non pensiero in cui si colloca molta psicopatologia grave.
Pertanto, oggi più che mai è fondamentale parlare, ascoltare e dare voce ai bambini, alle loro parole ma anche al loro agire che si esprime per lo più attraverso il gioco.
Il gioco simbolico e la narrazione
Il gioco simbolico, ‘fare finta di’, è uno strumento preziosissimo attraverso cui il bambino può mettere in scena il proprio mondo interno, drammatizzare angosce e paure, ma anche trovare soluzioni più o meno fantastiche per cercare di uscire dall’impasse.
Gioca da solo o mi coinvolge? È un gioco silenzioso o accompagnato dal racconto? Che ruolo assume? È un gioco ripetitivo, sempre uguale a sé stesso, o nel tempo si modifica?
Gioco e narrazione: poter raccontare, inventare storie che partano anche dalla crudezza della realtà ma che da essa si distacchino attraverso l’uso della fantasia. Parlare di altri, di altrove, di altri mondi o epoche, per poter esprimere parti di sé che difficilmente forse troverebbero voce.
Gioco, narrazione, rappresentazione: poter esprimere graficamente, dare una forma a voci e pensieri. Anche lasciare un segno su un foglio, o modellare plastilina, può aiutare a dare forma al proprio mondo emotivo condividendolo con gli altri.
Quale è l’obiettivo?
Lo scopo è aiutare il bambino a sentirsi capace di riconoscere e dare un nome alle proprie emozioni, anche quelle più difficili da maneggiare. Così lo facciamo sentire competente e in grado di non soccombere di fronte agli eventi, anche quelli più negativi.
Condividere con altri le proprie esperienze, perché anche la più negativa se vissuta in una dimensione interpersonale risluta meno gravosa.
La resilienza
La sfida che ci troveremo ad affrontare nei prossimi mesi sarà aiutare tutti a sviluppare la propria ‘resilienza’ ovvero la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
Tradotto in linguaggio psicologico significa saper “far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.”
Pensandoci bene, parlare e ascoltare non sono cose da poco, in tempo di pandemia e non.